Valore aggiunto e produttività in Italia: uno sguardo prospettico
Negli anni 80 la produttività delle imprese italiane si collocava su livelli di eccellenza, in linea con quella dei paesi più sviluppati. Le imprese in Italia erano flessibili nel governare i cambiamenti grazie alla loro dimensione ridotta e veloci nel cogliere le opportunità legate alle periodiche svalutazioni della Lira.
Tuttavia, a metà degli anni ’90, il blocco del tasso di cambio e l’ingresso sui mercati internazionali di beni prodotti a costi molto competitivi dai Paesi “emergenti” rappresentarono un autentico shock per la manifattura italiana. L’economia del nostro Paese entrò in una fase di stagnazione che si è protratta fino ai nostri giorni. L’Italia mostrò, in sostanza, una debolezza strutturale documentata dalla cronica incapacità di crescere, nonostante un mercato mondiale più aperto. Inoltre, la stagnazione fu accompagnata da un incremento dell’indebitamento pubblico, che rese il nostro Paese progressivamente più rischioso. Non è un caso, quindi, che l’assenza di crescita sia considerata, da molti economisti, non solo un problema, ma “il problema” dell’Italia.
STAGNANTE CRESCITA DEL VALORE AGGIUNTO PRODOTTO IN ITALIA
I dati di lungo periodo rivelano la cronica stagnazione dell’economia italiana con una crescita del valore aggiunto piatta negli ultimi 20 anni (grafico 1). Inoltre, dal confronto si manifesta la minore performance dell’Italia rispetto a quella registrata dagli altri Paesi, differenza misurata da un tasso medio annuo di crescita dello 0,4% per il nostro Paese contro l’1,2% di Francia e Germania e l’1,4% della Spagna.
Grafico 1: evoluzione valore aggiunto dei principali Paesi dell’Eurozona (base 100 anno 2000) – Fonte: Nostra elaborazione su dati Eurostat
Si tratta di un differenziale importante. Infatti, l’Italia ha registrato un incremento complessivo del valore aggiunto dell’8% nel periodo 2000-2022, mentre in Germania la crescita cumulata è stata del 29%, in Francia del 30% e in Spagna del 36%. Sono dati impressionanti che rivelano la difficoltà della nostra economia di creare, nel lungo periodo, una prosperità capace di mantenere lo standard di vita che l’Italia ha saputo raggiungere nei decenni passati.
LA PRODUTTIVITÀ DELL’ITALIA NON CRESCE
Così come per il valore aggiunto, anche l’indice di produttività del lavoro rivela un elevato ritardo dell’Italia rispetto ai più importanti paesi competitors, mostrando una persistente incapacità del nostro Paese di tenere il passo dei nostri concorrenti (grafico 2). In Italia la crescita della produttività, a fine 2022 rispetto al 2000, è stata solo del 4,5%, a fronte di un incremento del 23,4% in Germania e del 20,6% nell’Eurozona.
Grafico 2: produttività lavoro totale economia (V.A./ tot. n° ore lavorate) – base 100 anno 2000 –
Fonte: nostre elaborazioni su dati AMECO
TUTTI I MACROSETTORI ITALIANI SONO MENO PRODUTTIVI RISPETTO ALLA MEDIA EUROPEA
È noto che la produttività differisce ampiamente tra i settori. Generalmente nei Paesi europei, come anche in Italia, la produttività è più elevata nel settore industriale, meno nei servizi. Tuttavia, dall’analisi settoriale emerge che la manifattura italiana, sebbene in crescita, abbia una produttività del lavoro più contenuta rispetto a quella dei Paesi europei più rappresentativi (grafico 3). Inoltre, il nostro settore delle costruzioni si è dimostrato molto debole con un calo della produttività nel 2019 di circa il 20% rispetto al 2000, rilevando indici di performance inferiori rispetto a quelli della Germania e, soprattutto, della Spagna (grafico 3).
Grafico 3: confronto produttività per Paese, settori industria e costruzioni – base 100 anno 2000 – Fonte: Banca d’Italia
Anche il comparto dei servizi, il più rilevante per l’economia italiana con circa il 72% del totale del valore aggiunto, ha una produttività minore rispetto a quello dei Paesi europei (grafico 4) confermando una debolezza strutturale dell’economia italiana nel suo complesso.
Grafico 4: confronto produttività del lavoro macrosettore servizi – base 100 anno 2000 –
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Eurostat
QUALI SONO LE RAGIONI DELLA BASSA PRODUTTIVITÀ IN ITALIA?
Il ristagno della produttività dipende da un caleidoscopio di fattori che, in combinato disposto, hanno frenato lo sviluppo nell’industria e, soprattutto nei servizi. Secondo molti osservatori la stagnazione è conseguenza anche di una politica fiscale orientata all’aggiustamento della finanza pubblica e che ha trascurato di sostenere la domanda interna, elemento che avrebbe dovuto compensare le difficoltà delle imprese italiane meno competitive rispetto a quelle estere sui mercati internazionali. Inoltre in Italia, si sono verificati minori investimenti in nuove tecnologie rispetto a quelli dei Paesi concorrenti. Anche la liberalizzazione del mercato del lavoro e gli importanti flussi di immigrati avrebbero favorito una riduzione del costo implicito del lavoro aumentando l’impiego a scapito della produttività.
Non è da escludere l’impatto dei bassi tassi d’interesse sulle scelte delle imprese. Infatti, il basso costo del denaro, unitamente all’ abbondante disponibilità di credito, potrebbero aver frenato la riallocazione degli investimenti da settori poco produttivi ad altri più performanti, perpetuando un sistema poco efficiente nel confrontarsi con i mercati internazionali.
Infine, non va dimenticato il fattore dimensionale, considerando che il 95% delle imprese italiane ha meno di 10 dipendenti, percentuale più elevata di quella tedesca (82%) e della media Europea (92%). Di contro, solo lo 0,09% delle nostre aziende supera i 250 addetti (le quali generano un valore aggiunto per addetto superiore ai 70mila euro vs i circa 55 mila delle microimprese), contro lo 0,14% francese, lo 0,48% tedesco e lo 0,19% europeo.
SEGNALI POSITIVI NEGLI ULTIMI ANNI
In risposta alle recessioni degli anni 2008-2009 e 2012-2013, le imprese italiane hanno reagito riallocando le risorse con l’obiettivo di aumentare la produttività. Ciò risulta chiaro restringendo l’analisi agli anni 2015-2018, periodo in cui il cambio di passo è evidente e soprattutto nella manifatturata italiana, la quale ha ottenuto una crescita del valore aggiunto dell’11,5%, performance superiore a quella dei Paesi nostri concorrenti (grafico 5).
I numeri ci dicono che, nel periodo 2015-2018, l’Italia è il primo Paese per crescita media annua del valore aggiunto (+3,7%), seguita dalla Germania (+3,5%), Spagna (+3,0%) e Francia (+0,9%).
Grafico 5: crescita del valore aggiunto per Paese – base 100 anno 2015 – Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat
Sono dati significativi dovuti ad una serie di misure governative che hanno spinto le imprese italiane ad investire più di altri Paesi europei, come evidenzia il grafico 6. Infatti, le decisioni di politica industriale attuate dal governo italiano a favore delle imprese, come il Jobs Act, le decontribuzioni per le assunzioni a tempo indeterminato, la soppressione della tassa sugli imbullonati, il super-ammortamento, il credito di imposta allargato sulla ricerca, hanno favorito processi di investimento in macchinari e in nuove tecnologie che hanno reso le imprese manifatturiere italiane più competitive.
Grafico 6: crescita degli investimenti per Paese, settore manifattura – base 100 anno 2015 – Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat
Gli effetti positivi degli investimenti sono stati concreti. La produttività delle imprese italiane è cresciuta, raggiungendo livelli superiori a quella delle imprese manifatturiere tedesche sia nelle piccole (numero di addetti tra 10 e 49) sia in quelle di media dimensione (imprese fino a 249 addetti).
L’industria italiana ha, così, intrapreso un percorso virtuoso che ha permesso alle nostre imprese di essere di nuovo competitive sui mercati internazionali, come dimostra il surplus commerciale tra i più elevati a livello mondiale negli anni antecedenti la pandemia. Tuttavia, il processo di riammodernamento non è bastato a risolvere il problema della generale stagnazione dell’economia italiana perché, come conferma l’Ocse, la produttività italiana nei servizi sia pubblici che privati è rimasta bassa e mantiene un divario rispetto a quella dei nostri Paesi “competitors”.
Contributo a cura di Studi e Ricerche Banco BPM
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